La questione
della democrazia paritaria, che
per una maggioranza schiacciante di donne si realizza con parità di accesso
dei due sessi a qualsivoglia carica elettiva, prende inizio da molto lontano.
In tempi più recenti,
affiora come tema centrale dalle proposte di “Aspettare stanca” e del
“Laboratorio 50e50” nel 2006, dilaga con la campagna dell’UDI “50E50… ovunque
si decide!” che sfocia nella conseguente proposta di legge di iniziativa
popolare del 2007, e infine approda all’Accordo
di azione comune per la democrazia paritaria nel 2013, sottoscritto da
oltre 50 associazioni nazionali e gruppi di donne.
In Parlamento
segna la sua prima comparsa il 18 luglio 2012, quando, nell’ambito della
discussione al Senato di alcuni disegni di legge volti a modificare certi
articoli della Carta costituzionale, apparsi insufficienti o superati, la
senatrice Giuliana Carlino dell’IdV presenta un emendamento specifico all’art. 3.
Nella sua prima stesura il 3.215 recitava: "La legge garantisce la rappresentanza delle
minoranze e la parità di genere”. Nella seconda, conseguente alla richiesta
altrui di eliminare il riferimento alle minoranze, proponeva: “La legge
garantisce la parità di genere nella rappresentanza elettiva”. Benché
aderisse a questa elaborazione anche il PD, il folto fronte dei no riuscì a
bocciarlo.
Gli oppositori
si erano rifatti alla sentenza del 1995 n. 422 della Consulta, la quale non
rilevava un intento di misure positive nella formulazione allora vigente
dell’art. 51 della Costituzione ed escludeva che si potesse forzare il risultato elettorale con
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Le Deputate del Parlamento italiano
di I. N.
Per le nazioni europee ed extraeuropee gli studi appositi
forniscono quasi esclusivamente dati della “Camera bassa”, essendo abbastanza
pochi gli Stati il cui Parlamento annoveri anche un Senato. Nel Parlamento
italiano, in entrambe le camere, le donne dal 1948 al 2013 sono state
soltanto minoranza, diversamente da quel che è accaduto e accade altrove,
specialmente nell’Europa del Nord (Islanda e Paesi scandinavi).
Analizzando
un’infografica della Camera dalla prima legislatura all’attuale, assistiamo
nell’arco dei primi anni 24 anni di attività parlamentare a una decrescita
del numero delle Deputate, con la punta più alta di 45 elette registrata nel
1948 (I Legislatura) e la più bassa di 19 nel 1968 (V). Segue tra il 1976 e
il 2001 un incremento stentato e altalenante, con una punta minima di 53
donne nel 1992 (XI) e una massima di 98 nel 1994 (XII). Infine si registra
una crescita progressiva, a partire dalle 112 deputate del 2006 (XV) sino a
giungere alle 198 della Legislatura attuale (2013, XVII).
Il tutto
in ben 65 anni di esistenza delle 17 legislature del Parlamento italiano.
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Nei gruppi e nelle associazioni femministe emergevano,
intanto, prese di posizione ufficiali, con richieste miranti non a garantire
il risultato ma la parità di accesso alle cariche elettive mediante strategie
specifiche nella composizione delle liste, atte a evitare che ai primi posti
vi fossero quasi esclusivamente uomini, non sempre selezionati per merito, e
che le donne pur meritevoli per preparazione e per titoli fossero, quando
presenti, confinate agli ultimi posti con conseguenti scarse possibilità di
arrivo, specie in presenza di liste bloccate.
Torniamo adesso al 14 marzo di quest’anno e agli emendamenti
su cui avevano puntato, in sede di discussione dell’Italicum, le donne. La
richiesta delle deputate era di introdurre la doppia preferenza e l’alternanza
dei capilista.
Rivolgiamo
alcune domande a Marilisa D’Amico,
ordinaria di Diritto Costituzionale presso l’Università Statale di Milano.
C’erano buoni
motivi per ritenere che il 50&50 venisse introdotto nell’Italicum?
L’obiettivo degli emendamenti era di rafforzare la proposta
contenuta nel disegno di legge, la cui norma antidiscriminatoria originaria, limitata al divieto di inserire candidati
di uno stesso sesso in misura superiore ai due terzi, risultava troppo
blanda e facilmente aggirabile dai partiti politici.
Esistono ormai
moltissime sentenze del Giudice amministrativo che hanno affermato in modo
rigoroso il principio di parità, annullando giunte regionali e comunali ad
esso non conformi. Esistono anche sentenze della Consulta, che escludono che
si possa attribuire direttamente un
risultato - ovvero il seggio - in ragione del sesso. Di qui i dubbi
avanzati sulle norme che impongono in
liste bloccate l’alternanza secca per genere.
Questo avrebbe
potuto riguardare, però, solo l’emendamento sull’alternanza per sesso dei
capilista e non quello sulla doppia preferenza, direi.
Certamente. Ho già avuto occasione di dire che la soluzione
preferibile oggi sarebbe la eliminazione delle liste bloccate, che impedisce
ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti. Sono però convinta che
alla Camera quegli emendamenti siano stati respinti per altre ragioni, che
non attengono affatto a dubbi di legittimità costituzionale.
Si è trattato, ancora una volta, di forme di resistenza
assoluta a qualsivoglia misura che intenda promuovere in maniera paritaria
l’elezione di donne. Va ricordato infatti che l’introduzione della doppia
preferenza di genere era già stata giudicata favorevolmente dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 4
del 2010.
Cosa potrebbe accadere adesso in Senato per l’Italicum?
Spero che i
Senatori riprendano seriamente in esame il tema, soffermandosi sulla norme
relative alla parità di genere, scevri da quei pregiudizi che hanno reso
impossibile il dialogo alla Camera e consci che è la Costituzione, con l’integrazione
dell’art. 51 del 2003, ad imporre oggi l’adozione di misure legislative che
diano attuazione in modo efficace al principio di parità nell’accesso alle
cariche elettive, quindi anche - ed anzi in primo luogo - al Parlamento.
Può sembrare paradossale che la doppia preferenza di genere
sia stata considerata fattibile - sia pure con qualche attenuazione e con un
differimento temporale - per le elezioni europee e non accettabile, invece,
per le nazionali. Come lo spieghi?
Credo che abbia pesato la convinzione, purtroppo molto diffusa
e radicata, che le elezioni dei rappresentanti italiani per il Parlamento
europeo siano meno importanti rispetto a quelle di Camera e Senato; il fronte
di resistenza alle norme antidiscriminatorie si è rivelato dunque più
compatto quando si è ipotizzato di modificare l’Italicum.
Oltre a ciò, temo
che abbia giocato a favore della introduzione di norme sulla parità di genere
nella legge elettorale del Parlamento europeo proprio la circostanza che, in
questo caso, si è deciso di posticipare nel tempo gli effetti delle misure
più incisive, che risulteranno applicabili solo a partire dal 2019.
Con conseguente certezza di un maggior numero di candidati di
sesso maschile abilitati ad accaparrarsi quei seggi, in barba al conclamato
principio del merito. Come giudichi le reazioni dei politici e della
maggioranza dei cittadini alla richieste di parità di genere, definite
strumentalmente “quote rosa”?
Eccessive. E mi stupisce che ancora oggi si
opponga l’esigenza del “merito” alla richieste di parità, come se
incrementare le chances di elezione
delle donne, da sempre discriminate nell'accesso
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LEGGI COSTITUZIONALI E DECISIONI DELLA CONSULTA, un
percorso per il cambiamento
di I. N.
Il primo
mutamento consistente nel cammino verso la parità di genere in tema di
cariche elettive si verifica con la Legge costituzionale 31 gennaio 2001 n.
2, che modifica così lo Statuto siciliano del 1946: “Al fine di conseguire
l'equilibrio della rappresentanza dei sessi, la medesima legge promuove
condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali".
Nello
stesso anno, la Legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 stabilisce che “Le
leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli
uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono
la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.
Un ruolo
di particolare rilievo svolge poi la Legge
costituzionale del 30 maggio 2003 n. 1, che integra il primo comma dell’Art. 51 della Costituzione, cui si era ampiamente rifatta
la sentenza della Consulta del 1995. Al testo già esistente “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere
agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza,
secondo i requisiti stabiliti dalla legge” la nuova legge aggiunge: “A tale fine la Repubblica promuove con appositi
provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
La
modifica rende così innegabile ed esplicito il richiamo ad azioni positive,
atte a rendere sostanziale e non
solamente formale il pari accesso dei sessi alle cariche.
Ed
infatti con l’ordinanza n. 39 del 2005 la Consulta si esprime con forza
rilevando che, a seguito della modifica introdotta nel 2003, l’articolo 51
non dispone soltanto, come prima, che «la diversità di sesso, in sé e per sé
considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa» (v.
sentenza del 1995); il testo, al contrario, non può più essere inteso come
una semplice “specificazione del principio di uguaglianza” statuito dal 1º
comma dell’art. 3 della Costituzione, in quanto nella sua nuova completezza
l’articolo “assegna ora alla Repubblica anche un compito di promozione delle
pari opportunità tra donne e uomini”.
Ancora
più dettagliata è la posizione
espressa dalla Corte con sentenza n. 4 del 2010, in occasione del ricorso presentato nel 2009 dall’allora
Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi contro la Legge elettorale
della Regione Campania n. 4 del 27
marzo di quell’anno. Fra i vari articoli allora impugnati troviamo il n. 4
comma 3 che recita:
“L’elettore può esprimere, nelle apposite righe della scheda, uno o due voti di preferenza,
scrivendo il cognome ovvero il nome ed il cognome dei due candidati compresi
nella lista stessa. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di
genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista,
pena l’annullamento della seconda preferenza”.
Come
sottolinea la Corte, è la prima volta che
nell’ordinamento italiano una norma «prevede la cosiddetta “preferenza di
genere”». Oltre a riferirsi a un articolo del nuovo Statuto della regione
Campania, che aveva recepito esplicitandolo la modifica dell’art. 51 della
Costituzione, la Corte in questa sua pronuncia dichiara che “il quadro
normativo, costituzionale e statutario, (…) impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di
fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione
politica del Paese”. E prosegue: “i legislatori costituzionale e statutario
indicano la via delle misure specifiche volte a dare effettività ad un principio
di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato
nella prassi politica ed elettorale”.
Continuando
a riferirsi all’oggetto del ricorso e dunque alla norma contestata in
rapporto alla composizione del Consiglio regionale, la Corte asserisce che
non esiste una ragione obiettiva per ritenere che l’introduzione della doppia preferenza
possa rappresentare una forzatura del risultato (strutturandosi dunque come “quota”, n.d.r) e ledere il diritto
di libera scelta dell’elettore. Sarebbe infatti astrattamente possibile che
votazioni, attuate secondo tale metodo, finissero col determinare sia “un
risultato di equilibrata presenza di donne e uomini”, sia “il permanere del
vecchio squilibrio”, o ancora “l’insorgere di un nuovo squilibrio”, qualora
gli elettori, nel limitarsi ad esprimere una sola preferenza o a renderne
convalidabile una sola (la seconda per
un candidato non di sesso diverso sarebbe automaticamente cancellata, n.d.r),
votassero prevalentemente in favore di candidati di un sesso soltanto. “La
prospettazione di queste eventualità – tutte consentite in astratto dalla normativa
censurata – dimostra che la nuova
regola rende maggiormente possibile il riequilibrio, ma non lo impone. Si
tratta quindi di una misura
promozionale, ma non coattiva”.
Quanto
alla libertà dell’elettore, tutelata dall’art. 48 della Costituzione, la Corte
argomenta che “l’espressione della
doppia preferenza è meramente facoltativa per l’elettore, il quale ben
può esprimerne una sola, indirizzando la sua scelta verso un candidato
dell’uno o dell’altro sesso” e che “nel caso di espressione di due preferenze
per candidati dello stesso sesso, l’invalidità colpisce soltanto la seconda
preferenza”, ferma restando la prima scelta espressa. Non può essere considerato “lesivo della libertà degli elettori che
le leggi, di volta in volta, stabiliscano il numero delle preferenze
esprimibili, in coerenza con indirizzi di politica istituzionale che possono
variare nello spazio e nel tempo”. L’introduzione della doppia preferenza
costituisce “una facoltà aggiuntiva, che allarga lo spettro delle possibili
scelte elettorali”, è una semplice “norma riequilibratrice volta ad ottenere,
indirettamente ed eventualmente,
il risultato di un’azione positiva”; risultato che “non sarebbe, in ogni
caso, effetto della legge, ma delle libere scelte degli elettori, cui si
attribuisce uno specifico strumento utilizzabile a loro discrezione”.
Questo il più
recente parere della Consulta sul tema, in un contesto di elezioni regionali.
Questo l’orientamento cui la stessa si conformerebbe in un contesto di
elezioni politiche, nel caso di un ben congegnato ricorso contro l’Italicum.
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