martedì 15 luglio 2014

ITALICUM /Nessuna garanzia di parità per l’accesso alle elezioni politiche


PARLAMENTO / LA DIFFICILE ASCESA DELLE DONNE
di Iole Natoli
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Tutto comincia il 10 Marzo alla Camera. La legge elettorale si fa “azzurra” e sui quotidiani on line della penisola appaiono in primo piano questi titoli: «Italicum, la Camera boccia emendamenti sulle quote rosa», «La Camera boccia la parità di genere», «Italicum, bocciate le quote rosa», «Bocciati con voto segreto tutti gli emendamenti sulle quote rosa» e così via. Qualcuno si sofferma sulle proteste del gruppo trasversale di deputate che avevano sostenuto gli emendamenti, qualche altro sulla spaccatura del PD, altri ancora sulle promessa di Renzi «assicureremo l'alternanza» uomo/donna nelle liste. Ma cosa è realmente accaduto alla Camera quel giorno e perché?
La questione della democrazia paritaria, che per una maggioranza schiacciante di donne si realizza con parità di accesso dei due sessi a qualsivoglia carica elettiva, prende inizio da molto lontano. In tempi più recenti, affiora come tema centrale dalle proposte di “Aspettare stanca” e del “Laboratorio 50e50” nel 2006, dilaga con la campagna dell’UDI “50E50… ovunque si decide!” che sfocia nella conseguente proposta di legge di iniziativa popolare del 2007, e infine approda all’Accordo di azione comune per la democrazia paritaria nel 2013, sottoscritto da oltre 50 associazioni nazionali e gruppi di donne.
In Parlamento segna la sua prima comparsa il 18 luglio 2012, quando, nell’ambito della discussione al Senato di alcuni disegni di legge volti a modificare certi articoli della Carta costituzionale, apparsi insufficienti o superati, la senatrice Giuliana Carlino dell’IdV presenta un emendamento specifico all’art. 3.
Nella sua prima stesura il 3.215 recitava: "La legge garantisce la rappresentanza delle minoranze e la parità di genere”. Nella seconda, conseguente alla richiesta altrui di eliminare il riferimento alle minoranze, proponeva: “La legge garantisce la parità di genere nella rappresentanza elettiva”. Benché aderisse a questa elaborazione anche il PD, il folto fronte dei no riuscì a bocciarlo.
Gli oppositori si erano rifatti alla sentenza del 1995 n. 422 della Consulta, la quale non rilevava un intento di misure positive nella formulazione allora vigente dell’art. 51 della Costituzione  ed escludeva che  si  potesse forzare   il   risultato   elettorale  con
Le Deputate del Parlamento italiano
di I. N.

Per le nazioni europee ed extraeuropee gli studi appositi forniscono quasi esclusivamente dati della “Camera bassa”, essendo abbastanza pochi gli Stati il cui Parlamento annoveri anche un Senato. Nel Parlamento italiano, in entrambe le camere, le donne dal 1948 al 2013 sono state soltanto minoranza, diversamente da quel che è accaduto e accade altrove, specialmente nell’Europa del Nord (Islanda e Paesi scandinavi).
Analizzando un’infografica della Camera dalla prima legislatura all’attuale, assistiamo nell’arco dei primi anni 24 anni di attività parlamentare a una decrescita del numero delle Deputate, con la punta più alta di 45 elette registrata nel 1948 (I Legislatura) e la più bassa di 19 nel 1968 (V). Segue tra il 1976 e il 2001 un incremento stentato e altalenante, con una punta minima di 53 donne nel 1992 (XI) e una massima di 98 nel 1994 (XII). Infine si registra una crescita progressiva, a partire dalle 112 deputate del 2006 (XV) sino a giungere alle 198 della Legislatura attuale (2013, XVII).
Il tutto in ben 65 anni di esistenza delle 17 legislature del Parlamento italiano.
l’introduzione di quoteDal 1955 al 2012, però, erano già cambiate molte cose sia nell’ambito delle decisioni della Consulta (sentenza n. 49 del febbraio 2003, ordinanza n. 39 del 2005, sentenza n. 4 del 2010) sia in quello delle norme legislative (Leggi costituzionali 2001 n. 2 e 3, Legge costituzionale 2003 n. 1). Di fatto era interamente cambiato il quadro normativo cui si sarebbero dovuti rifare i senatori nella discussione assembleare del 2012; malgrado ciò venne citata solo la lontana sentenza del 1995, in totale disconoscimento volontario delle modificazioni successive.
C’è da rilevare tuttavia che il contenuto dell’emendamento Carlino era ambiguo. “La legge garantisce la parità di genere nella rappresentanza elettiva” può legittimamente essere inteso come pretesa garanzia di risultato e non di parità di accesso alle liste. “Sembra 50E50 invece è quota”, scriveva nel luglio 2012 Pina Nuzzo, rappresentante sino a un anno prima dell’Udi. Giusto. Nulla però avrebbe impedito ai dissidenti di proporre una modifica dell’emendamento consona alle nuove leggi e decisioni, cosa che, in linea con il conservatorismo, non avvenne.
Nei gruppi e nelle associazioni femministe emergevano, intanto, prese di posizione ufficiali, con richieste miranti non a garantire il risultato ma la parità di accesso alle cariche elettive mediante strategie specifiche nella composizione delle liste, atte a evitare che ai primi posti vi fossero quasi esclusivamente uomini, non sempre selezionati per merito, e che le donne pur meritevoli per preparazione e per titoli fossero, quando presenti, confinate agli ultimi posti con conseguenti scarse possibilità di arrivo, specie in presenza di liste bloccate.
Torniamo adesso al 14 marzo di quest’anno e agli emendamenti su cui avevano puntato, in sede di discussione dell’Italicum, le donne. La richiesta delle deputate era di introdurre la doppia preferenza e l’alternanza dei capilista.
Rivolgiamo alcune domande a Marilisa D’Amico, ordinaria di Diritto Costituzionale presso l’Università Statale di Milano.

C’erano buoni motivi per ritenere che il 50&50 venisse introdotto nell’Italicum?

L’obiettivo degli emendamenti era di rafforzare la proposta contenuta nel disegno di legge, la cui norma antidiscriminatoria originaria, limitata al divieto di inserire candidati di uno stesso sesso in misura superiore ai due terzi, risultava troppo blanda e facilmente aggirabile dai partiti politici.
Esistono ormai moltissime sentenze del Giudice amministrativo che hanno affermato in modo rigoroso il principio di parità, annullando giunte regionali e comunali ad esso non conformi. Esistono anche sentenze della Consulta, che escludono che si possa attribuire direttamente un risultato - ovvero il seggio - in ragione del sesso. Di qui i dubbi avanzati sulle norme che impongono in liste bloccate l’alternanza secca per genere.
Questo avrebbe potuto riguardare, però, solo l’emendamento sull’alternanza per sesso dei capilista e non quello sulla doppia preferenza, direi.
Certamente. Ho già avuto occasione di dire che la soluzione preferibile oggi sarebbe la eliminazione delle liste bloccate, che impedisce ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti. Sono però convinta che alla Camera quegli emendamenti siano stati respinti per altre ragioni, che non attengono affatto a dubbi di legittimità costituzionale.
Si è trattato, ancora una volta, di forme di resistenza assoluta a qualsivoglia misura che intenda promuovere in maniera paritaria l’elezione di donne. Va ricordato infatti che l’introduzione della doppia preferenza di genere era già stata giudicata favorevolmente dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 4 del 2010.
Cosa potrebbe accadere adesso in Senato per l’Italicum?
Spero che i Senatori riprendano seriamente in esame il tema, soffermandosi sulla norme relative alla parità di genere, scevri da quei pregiudizi che hanno reso impossibile il dialogo alla Camera e consci che è la Costituzione, con l’integrazione dell’art. 51 del 2003, ad imporre oggi l’adozione di misure legislative che diano attuazione in modo efficace al principio di parità nell’accesso alle cariche elettive, quindi anche - ed anzi in primo luogo - al Parlamento.
Può sembrare paradossale che la doppia preferenza di genere sia stata considerata fattibile - sia pure con qualche attenuazione e con un differimento temporale - per le elezioni europee e non accettabile, invece, per le nazionali. Come lo spieghi?
Credo che abbia pesato la convinzione, purtroppo molto diffusa e radicata, che le elezioni dei rappresentanti italiani per il Parlamento europeo siano meno importanti rispetto a quelle di Camera e Senato; il fronte di resistenza alle norme antidiscriminatorie si è rivelato dunque più compatto quando si è ipotizzato di modificare l’Italicum.
Oltre a ciò, temo che abbia giocato a favore della introduzione di norme sulla parità di genere nella legge elettorale del Parlamento europeo proprio la circostanza che, in questo caso, si è deciso di posticipare nel tempo gli effetti delle misure più incisive, che risulteranno applicabili solo a partire dal 2019.
Con conseguente certezza di un maggior numero di candidati di sesso maschile abilitati ad accaparrarsi quei seggi, in barba al conclamato principio del merito. Come giudichi le reazioni dei politici e della maggioranza dei cittadini alla richieste di parità di genere, definite strumentalmente “quote rosa”?
Eccessive. E mi stupisce che ancora oggi si opponga l’esigenza del “merito” alla richieste di parità, come se incrementare le chances di elezione delle  donne,  da  sempre  discriminate nell'accesso
LEGGI COSTITUZIONALI E DECISIONI DELLA CONSULTA, un percorso per il cambiamento
di I. N.

Il primo mutamento consistente nel cammino verso la parità di genere in tema di cariche elettive si verifica con la Legge costituzionale 31 gennaio 2001 n. 2, che modifica così lo Statuto siciliano del 1946: “Al fine di conseguire l'equilibrio della rappresentanza dei sessi, la medesima legge promuove condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali".
Nello stesso anno, la Legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 stabilisce che “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.
Un ruolo di particolare rilievo svolge poi la Legge costituzionale del 30 maggio 2003 n. 1, che integra il primo comma dell’Art.  51 della Costituzione, cui si era ampiamente rifatta la sentenza della Consulta del 1995. Al testo già esistente “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” la nuova legge aggiunge: “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
La modifica rende così innegabile ed esplicito il richiamo ad azioni positive, atte a rendere sostanziale e non solamente formale il pari accesso dei sessi alle cariche.
Ed infatti con l’ordinanza n. 39 del 2005 la Consulta si esprime con forza rilevando che, a seguito della modifica introdotta nel 2003, l’articolo 51 non dispone soltanto, come prima, che «la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa» (v. sentenza del 1995); il testo, al contrario, non può più essere inteso come una semplice “specificazione del principio di uguaglianza” statuito dal 1º comma dell’art. 3 della Costituzione, in quanto nella sua nuova completezza l’articolo “assegna ora alla Repubblica anche un compito di promozione delle pari opportunità tra donne e uomini”. 
Ancora più dettagliata è la posizione espressa dalla Corte con sentenza n. 4 del 2010, in occasione del ricorso presentato nel 2009 dall’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi contro la Legge elettorale della Regione Campania n. 4 del 27 marzo di quell’anno. Fra i vari articoli allora impugnati troviamo il n. 4 comma 3 che recita:
L’elettore può esprimere, nelle apposite righe della scheda, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome ovvero il nome ed il cognome dei due candidati compresi nella lista stessa. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza”.
Come sottolinea la Corte, è la prima volta che nell’ordinamento italiano una norma «prevede la cosiddetta “preferenza di genere”». Oltre a riferirsi a un articolo del nuovo Statuto della regione Campania, che aveva recepito esplicitandolo la modifica dell’art. 51 della Costituzione, la Corte in questa sua pronuncia dichiara che “il quadro normativo, costituzionale e statutario, (…) impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica del Paese”. E prosegue: “i legislatori costituzionale e statutario indicano la via delle misure specifiche volte a dare effettività ad un principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale”.
Continuando a riferirsi all’oggetto del ricorso e dunque alla norma contestata in rapporto alla composizione del Consiglio regionale, la Corte asserisce che non esiste una ragione obiettiva per ritenere che l’introduzione della doppia preferenza possa rappresentare una forzatura del risultato (strutturandosi dunque come “quota”, n.d.r) e ledere il diritto di libera scelta dell’elettore. Sarebbe infatti astrattamente possibile che votazioni, attuate secondo tale metodo, finissero col determinare sia “un risultato di equilibrata presenza di donne e uomini”, sia “il permanere del vecchio squilibrio”, o ancora “l’insorgere di un nuovo squilibrio”, qualora gli elettori, nel limitarsi ad esprimere una sola preferenza o a renderne convalidabile una sola (la seconda per un candidato non di sesso diverso sarebbe automaticamente cancellata, n.d.r), votassero prevalentemente in favore di candidati di un sesso soltanto. “La prospettazione di queste eventualità – tutte consentite in astratto dalla normativa censurata – dimostra che la nuova regola rende maggiormente possibile il riequilibrio, ma non lo impone. Si tratta quindi di una misura promozionale, ma non coattiva”.
Quanto alla libertà dell’elettore, tutelata dall’art. 48 della Costituzione, la Corte argomenta che “l’espressione della doppia preferenza è meramente facoltativa per l’elettore, il quale ben può esprimerne una sola, indirizzando la sua scelta verso un candidato dell’uno o dell’altro sesso” e che “nel caso di espressione di due preferenze per candidati dello stesso sesso, l’invalidità colpisce soltanto la seconda preferenza”, ferma restando la prima scelta espressa. Non può essere considerato “lesivo della libertà degli elettori che le leggi, di volta in volta, stabiliscano il numero delle preferenze esprimibili, in coerenza con indirizzi di politica istituzionale che possono variare nello spazio e nel tempo”. L’introduzione della doppia preferenza costituisce “una facoltà aggiuntiva, che allarga lo spettro delle possibili scelte elettorali”, è una semplice “norma riequilibratrice volta ad ottenere, indirettamente ed eventualmente, il risultato di un’azione positiva”; risultato che “non sarebbe, in ogni caso, effetto della legge, ma delle libere scelte degli elettori, cui si attribuisce uno specifico strumento utilizzabile a loro discrezione”.
Questo il più recente parere della Consulta sul tema, in un contesto di elezioni regionali. Questo l’orientamento cui la stessa si conformerebbe in un contesto di elezioni politiche, nel caso di un ben congegnato ricorso contro l’Italicum.
alla politica, possa mettere in discussione quel criterio. All’opposto, è proprio l’atteggiamento discriminatorio vigente che tiene fuori dalle Aule parlamentari competenze e professionalità preziose per il nostro Paese.
Anche la terminologia cui si ricorre rischia di rallentare il progresso culturale. L’uso di espressioni quali “quote di genere” o, ancora peggio, “quote rosa” contribuisce ad inasprire i toni del dibattito, producendo persino reazioni contrarie in molte cittadine, che in quelle categorie non riescono proprio a riconoscersi. 
È bene imparare a utilizzare correttamente il linguaggio tecnico, evitando di parlare indistintamente di quote, perché nella maggior parte dei casi le norme proposte mirano a introdurre meccanismi promozionali e non costrittivi.
Il Porcellum è stato cancellato grazie a una sentenza della Consulta. Pensi che si potrebbe attivare una proceduta analoga per l’Italicum se venisse approvato senza il 50 e 50?
Il tema è complesso, e richiederebbe un approfondimento non sintetizzabile in poche parole. Mi limito ad osservare che se la legge elettorale venisse approvata dal Parlamento senza alcuna norma antidiscriminatoria efficace, ci troveremmo dinanzi ad una violazione dell’art. 51 della Carta, che impone di dare attuazione al principio di pari opportunità.
Ma come far valere questo vizio? E come potrebbe pronunciarsi la Consulta, posto che le soluzioni normative attuative dell’art. 51 sono molteplici e che, in linea di principio, la scelta spetta al Legislatore?
Non si tratta di quesiti semplici, ma certamente la via aperta con l’azione che ha dato origine alla sentenza n. 1 del 2014, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime parti del cosiddetto Porcellum, costituisce un precedente importante al quale guardare con attenzione. Non escludo di conseguenza che taluno (cittadini elettori, associazioni di tutela delle pari opportunità) possa provare a intraprendere lo stesso percorso e che la Corte possa decidere di entrare nel merito della questione.
15.07.2014
© Iole Natoli

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