QUEL CHE
SI CELA |
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di Iole Natoli
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L’esplosione del
caso burkini, portando allo scoperto ideologie, contraddizioni e qualunquismi
infantili, genera riflessioni sul da farsi. Ho già scritto qualcosa sul tema
(link e link), ma trovo
necessario ritornarvi.
Alcuni articoli
apparsi sul web (link) e taluni
interventi su FB hanno sottolineato il fatto che non sempre il velo è imposto
dalle famiglie e che spesso si tratta - almeno in Europa - di un fenomeno di
ostentazione identitaria, con cui le giovani generazioni di donne, figlie di
immigrati e/o di immigrate, esprimono il loro rifiuto di una società
occidentale che non le convince.
Giusta osservazione. Solo che, invece di richiedere ai nostri
rappresentanti della politica o alle donne e agli uomini di governo che si
modifichino certe situazioni nostrane, se
ne deduce in genere con qualunquismo estremo che non si debba far niente,
in nome di una suprema libertà di aderire a questo o a quel condizionamento.
Anni e anni di
studi psicologici sul linguaggio del corpo, sulla comunicazione non verbale,
sui messaggi trasmessi con le immagini, vanificati con un colpo di spugna che
lascia del tutto irrisolti i problemi.
Non trovo dissennate le misure adottate dai sindaci francesi,
che hanno visto i loro luoghi ricoprirsi di sangue e che nell’adozione di
talune uniformi da shari’a individuano
una messa a rischio della serenità che dovrebbe regnare nelle spiagge.
Non risolvono, ma è falso affermare che si stia obbligando
le donne musulmane a restare a casa. Delle due l’una: o è vero che quei
costumi sono una scelta soggettiva delle giovani donne musulmane, oppure si
tratta di obblighi imposti da padri e/o mariti padroni e non di scelte
personali. Probabilmente si tratta di un fenomeno misto.
Giusti o sbagliati che possano apparire i divieti
francesi, con essi si sta dicendo di
no a un costume-divisa da portare in spiaggia e non alle donne, le quali
dunque nel primo caso indicato potrebbero andarci ugualmente, vestite in modo
meno radical-fondamentalista. Se per manifestare la propria identità qualcuno
andasse in giro con una fascia con svastica sul braccio, lo troveremmo
passibile di accettazione in nome di una qualche libertà?
“Ma allora non le fanno andare in
spiaggia!” ci commuoviamo subito, cuore materno in
mano, trafitto da strali di sorellante passione. Con ciò si sta però negando
che sia una decisione delle donne e si sta dando forza all’idea che si tratti
di imposizione maschile e dunque di prevaricazione bella e buona, che si
finisce con il consolidare avallandola.
Come al solito
abbonda il qualunquismo e difetta di molto la coerenza.
L’Italia però non è come la Francia,
almeno sino ad ora. Noi non abbiamo da piangere morti
di quella tipologia sul nostro territorio, né da temere sommosse popolari
reattive; possiamo dunque non vietare il burkini pur non condividendolo affatto.
Non così il burqa
totale o con soli occhi scoperti. Non molto tempo addietro ho visto una nutrita coorte di donne imburqate, che attraversavano serie, composte e in nero una via cittadina per entrare in un bar. Si vedevano di loro solo gli occhi ed erano capitanate da un uomo, una volta tanto parzialmente bardato anche lui malgrado il caldo e non in freschi calzoncini estivi e
maniche corte. Questo non in Marocco, Tunisia, Algeria, Arabia Saudita o
altri Paesi distanti da noi, no; accadeva nella centralissima via Dante di Milano. Con
tutta probabilità continua ad accadere, benché non mi sia più capitato di
incrociare una folta processione come quella.
Non è affatto vero che donne col burqa ce ne siano in giro
molto poche, come sembra ritenere il ministro Alfano, come non è affatto vero
che il rifiuto del burqa, totale o lievemente parziale, sia motivato SOLO da
un’incompatibilità di “valori”.
Esiste un problema
di sicurezza che non può venire ignorato, dato che sotto un burqa può
nascondersi chiunque, che sia musulmano o meno, per
commettere qualsiasi crimine senza essere identificato. Chi non si rende
conto di questo mente a se stesso e alla comunità, applica un altro tipo di
burqa al suo cervello, quello che viene comunemente definito con la frase
“avere il prosciutto sugli occhi”.
Le disposizioni attuali permettono di aggirare il problema, in
quanto basta che a richiesta di qualche autorità la donna irriconoscibile
sollevi il velo, per non incorrere nelle sanzioni previste. Il che significa
che, se un qualsiasi individuo - ripeto, musulmano o no - si nasconde sotto
un burqa per commettere un crimine, i cittadini non avranno nemmeno la
possibilità di offrire una testimonianza utile agli organi di polizia, al di
là di un “era alto”, “era basso”, “era magro”, tralasciando l’eventuale “era
grasso" dato che qualunque imbottitura è invisibile sotto manti coprenti
come quelli. E ciò significa che chiunque, maschio o femmina, sia
intenzionato a delinquere dispone a priori di un lasciapassare per la propria
impunità, che può solo incrementare i crimini e di sicuro non ridurne il
numero.
Per non parlare
dell’ostacolo all’integrazione, su cui sta cominciando a riflettere Angela
Merkel e che è un problema reale. Chi si veste con burqa e nikab sta
dichiarando apertamente di chiudersi da sé in un mondo a parte, di non
volersi rapportare con gli altri, di escludere qualsiasi interazione. Per
volontà personale o indotta, poco cambia. Con questo siamo però in un altro
campo, che non è più quello della sicurezza.
Parliamo allora del processo di integrazione.
Dando per scontato
che il divieto del burqa sia da introdurre senza scappatoie possibili nella
nostra legislazione, vorrei però soffermarmi su qualcos’altro e cioè sull’incompatibilità dei valori.
È verissimo, si
tratta di valori incompatibili ma… principalmente sulla carta. Nei fatti è
abbastanza improbabile che le giovani donne musulmane che decidano spontaneamente
di coprirsi, o che ne siano in qualche modo obbligate, possano riconoscere
come rispettosi delle donne una serie di fatti e di messaggi che in Italia le
attorniano sistematicamente ogni giorno.
In un gruppo FB
c’è stata una discussione sul modo di affrontare questa desiderata
“conversione” di giovani musulmane pesantemente ammantate, inducendole con un
articolato dialogo a rispettare talune regole del Paese in cui vivono. Già una
formulazione di questo tipo prevedendo un itinerario a senso unico appare
abbastanza discutibile, ma lascio ciò all’intuito di chi legge per non
trovarmi a scrivere un trattato.
Si è discusso in sostanza di approntare tavoli per l’incontro
e il dialogo con queste donne. A parte il fatto che non vedo nessun progetto
parlamentare - se c’è e mi è sfuggito
qualcuno me lo segnali e gliene sarò molto grata - che preveda
l’istituzione di operatrici e operatori culturali per l’integrazione che
operino sul territorio con sovvenzionamento dello Stato (la gratuità del volontariato, che viene quasi sempre addossato solo
alle donne, è l’unico mezzo previsto dal sistema), sarei curiosa di
sapere cosa risponderebbero le operatrici e gli operatori suddetti se le
donne musulmane obiettassero che:
- non è forse vero che in Italia si sia ben lontani dal
garantire non solo il rispetto delle donne ma perfino la sopravvivenza delle
stesse (vedi femminicidi ricorrenti e talune sentenze della magistratura)?
- è forse segno di rispetto per le donne che: i loro corpi
vengano sistematicamente utilizzati per la vendita di oggetti di ogni tipo,
quasi sempre in abiti succinti; si possa pubblicizzare qualcosa con immagini
che suggeriscono lo stupro; sia considerato normale che l’attenzione dei
quotidiani italiani venga in massima parte dedicata al “lato B” delle atlete
di Rio (link)?
- è forse segno di
rispetto per le donne che nessuno rifletta sulle eterne gallerie, propinate
da molti quotidiani, di dive dello spettacolo che “meravigliosamente” a 70
anni ne dimostrano 30 e che vengono esaltate come esempi luminosi di
femminilità proponibile, tralasciando a quali costi fisici di bisturi si
siano “dovute” sottoporre, per ottenere e mostrare al mondo quelle immagini costruite
di se stesse?
C’è da ritenere, Signore
e Signori del Parlamento e del Governo, che gli incontri dialogici ipotizzati
in totale buonafede da alcune e qui riportati, stipendiati dallo Stato come
dovrebbe essere e come non è, possano avere realmente successo nel dare un minimo di credibilità alle
richieste di adeguamento ai valori di un Paese, che fa di tutto per negarli
già in proprio?
Quando verrà esaminato nella sua dimensione complessiva questo
gravissimo iato, evitando di circoscrivere solo agli effetti attuali o futuri
dell’immigrazione le discriminazioni contro le donne, affinché le musulmane
possano soggettivamente sentirsi libere
di liberarsi senza rischi e le donne occidentali - nel nostro caso le
italiane - possano non solo veder definiti da una Carta i loro diritti ma
viverne quotidianamente l’attuazione, disponendo
così anche di un modello reale di indipendenza e libertà da offrire
utilmente alla riflessione di chi arriva da mondi diversi?
Quando lo Stato capirà di avere L’OBBLIGO di
finanziare tutte le iniziative
necessarie per la difesa e l’attuazione dei diritti delle donne, a partire da quelle per la difesa della loro
vita di cui si fanno e/o si sono fatte carico le Associazioni nostrane
contro la violenza sulle donne, invece di tagliar fondi come fa?
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21.08.2016
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© Iole Natoli
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Dal gruppo omonimo di FB, nato quale progetto di lavoro per l'elaborazione di proposte politiche
domenica 21 agosto 2016
BURKINI SÌ, BURKINI NO E OCCHI CIECHI DI STATO / Lettera aperta a Parlamento e Governo
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